Barolo Boys è il frutto dell'incontro tra Tiziano Gaia e una piccola casa di produzione, la Stuffilm di Bra (CN), formata da quattro differenti professionalità:
Alberto Cravero (regista e fotografo), Fabio Mancari (regista e operatore video), Federico Moznich (produttore), Paolo Casalis (regista e operatore video).
A loro va aggiunto, in qualità di fonico in presa diretta e di autore di molte delle riprese del documentario, Giacomo Piumatti, giovane regista che ha svolto il suo stage presso la nostra struttura nei mesi della realizzazione del film.
Barolo Boys è una produzione indipendente? Sì, decisamente sì.
Spesso nel mondo del cinema si abusa di questo termine, in uno smarcamento rispetto alle produzioni maggiori che talvolta sconfina nel risibile: "Il documentario indipendente con un budget di soli 300mila euro...", "Il film indipendente realizzato con il contributo di..." (segue elenco di 20 tra soggetti pubblici e privati).
Barolo Boys è stato realizzato con un budget "teorico" di 9mila€ (contributi della Film Commission Torino Piemonte e del Parco Piemonte Paesaggio Umano, che difficilmente saranno elargiti entro il 2014), cui va aggiunto un contributo di 10mila€ da parte di Eataly Media, che è però un prestito e come tale verrà restituito.
Perchè vi diciamo tutto ciò?
Non per vanto, nè per invidia verso le produzioni che - più brave - hanno saputo raccogliere maggiore sostegno, ma
1) Per orgoglio, perchè tutto ciò che vedete e vedrete è frutto di un grande investimento lavorativo ed economico di Stuffilm, che ha portato avanti questo progetto con ogni risorsa disponibile.
2) Per toglierci qualche piccolo, ma fastidioso sassolino.
Abbiamo ricevuto una valanga di porte in faccia da (quasi) tutti coloro che rappresentano il territorio e i temi raccontati dal film: fondazioni bancarie, enti territoriali, enti di promozione, associazioni e consorzi vari.
3) Per sgomberare il campo da equivoci e malintesi: come è doveroso che sia per un film documentario, nessun produttore di vino ha pagato un solo euro ( ma qualche bicchiere di vino lo abbiamo scroccato, tocca ammeterlo) perchè venisse raccontata la sua storia.
Nessuna "marchetta" o condizionamento, anche in questo senso ci fregiamo con orgoglio dell'etichetta di film indipendente: abbiamo detto solo ed esclusivamente quello che volevamo dire.
4) Per ringraziare fin d'ora tutti coloro che hanno ordinato la propria copia del film, che lo andranno a vedere al cinema o che lo acquisteranno in formato dvd o streaming:
solo con il vostro sostegno questo film (e le produzioni Stuffilm e ogni altra produzione indipendente) possono esistere, Grazie.
Ringraziamo la Film Commission Torino Piemonte, il Parco Piemonte Paesaggio Umano (Alberto Cirio e Antonella Cavallo), Eataly Media, Slow Food per il patrocinio e l'ospitalità durante Cheese 2013, l'Ente Fiera di Alba per lo spazio concesso a Vinum 2014.
Ringraziamo
di cuore tutti coloro che ci hanno concesso qualche ora del proprio tempo, che si sono lasciati intervistare o riprendere, a prescindere dal ruolo e dal "peso" finale all'interno del film.
Un ringraziamento speciale va a Joe Bastianich, per la sua grande disponibilità e cortesia.
Quando lo scorso anno Tiziano Gaia mi ha proposto di realizzare questo film insieme a lui, ammetto di averci pensato su non una, ma più e più volte.
All'epoca il termine Barolo Boys mi era abbastanza oscuro, e tuttavia avevo ben presente il significato di un suo “sinonimo” per me molto più chiaro e immediato:
i modernisti del barolo.
Premessa doverosa: io non sono un esperto di vino, non sono un somellier né un tecnico, ma avendo realizzato in precedenza un documentario (link) che aveva tra i protagonisti Maria Teresa Mascarello, mi ero già imbattuto nella diatriba tra i difensori del barolo tradizionale (capeggiati dal padre di Maria Teresa, Bartolo) e i nuovi produttori, quei giovani ribelli che a detta di Bartolo Mascarello volevano trasformare le Langhe in una nuova Napa Valley, che avevano studiato a lungo (copiato?) i modelli francese e americano e non avevano avuto esitazioni nell'abbandonare una tradizione e una cultura secolari.
Tornando a quel giorno in cui Tiziano Gaia mi propose di fare questo film, il mio primo pensiero fu di sorpresa, di grande sorpresa: per la prima volta qualcuno magnificava (e non condannava) il ruolo e la storia dei Barolo Boys, per la prima volta qualcuno esaltava (e non condannava) un gruppo di piccoli produttori che a partire da metà anni '80 aveva portato lo sconquasso nel mondo del vino.
I miei due ragionamenti successivi furono
1) “Tiziano ha preso a cuore una causa persa, meglio non seguirlo su questo terreno”
2) “Beh, potrebbe essere l'occasione di raccontare la stessa storia dal punto di vista dei cattivi, di posizionare la telecamera nell'accampamento dei cowboys dopo aver raccontato la guerra dalla parte degli indiani" (cit. Andrea Scanzi - link).
“Mi si prospettava una strada inesplorata, piena di pericoli e di avventure..” potrei dire oggi parafrasando Marc de Grazia e le sue dottissime citazioni dell'Ulisse dantesco.
Più prosaicamente, la curiosità e la voglia di raccontare qualcosa di nuovo e di originale fu più forte di qualunque ragionamento “materiale”, perchè è evidente che in questo momento paghino di più, in termini di visibilità e attenzione del pubblico, ben altri documentari e ben altre storie (quelle di produttori eroici e naturali, quelle stesse che io stesso avevo già raccontato nel già citato Langhe Doc, per capirci)
Da quel giorno sono passati ormai molti mesi, e devo ammettere che molte delle mie granitiche certezze si sono ammorbidite, e che la mia visione delle cose è oggi molto più sfumata e (suppongo) consapevole e obiettiva.
In sintesi: non ci sono buoni e cattivi tout court. Oppure, se preferite, non ci sono più i cattivi di una volta, e al posto di John Wayne ora nell'accampamento dei cowboys ci troviamo il Kevin Costner di “Balla coi lupi” (qui forse ho esagerato, nelle Langhe non ci sono bisonti e coyotes).
Mesi di riprese a contatto con i Barolo Boys, con Elio Altare, Chiara Boschis, Giorgio Rivetti, Marc de Grazia (o Disgrazia, come venne soprannominato dai suoi detrattori) hanno smussato le differenze tra il tradizionalista (io) e il modernista (Tiziano).
Di certo, oggi io sono più aperto nei confronti delle innovazioni apportate dai modernisti e anche io, come Tiziano, attribuisco loro un ruolo rilevante nella storia delle Langhe del vino.
Perchè diciamolo chiaramente e una volta per tutte – e nel film lo dice un insospettabile come il Cav. Lorenzo Accomasso, super tradizionalista e veterano di tutte le guerre del Barolo - “Una volta il Barolo non lo conosceva nessuno, andavi a dieci chilometri da La Morra e nessuno sapeva più che cos'era”.
In secondo luogo, oggi molti dei Barolo Boys (un nome tra tutti? Chiara Boschis) sono “bio” tanto e forse più di molti loro colleghi tradizionalisti, e nelle vigne di Chiara Boschis ho ritrovato quelle stesse erbace alte che avevo filmato nelle vigne di Maria Teresa Mascarello. Di certo, poi, non si “abusa” più del legno come, a detta dei nostri stessi modernisti, capitava spesso e volentieri negli anni '90.
E per finire, come sempre accade nel fare i documentari, la conoscenza diretta delle persone è in grado di sovvertire qualsiasi preconcetto; non sempre in meglio, intendiamoci! però in questo caso l'entusiasmo di Chiara Boschis, la profondità di Marc de Grazia, l'orgoglio testardo di Elio Altare...
Credo che dal film traspaia questo percorso tortuoso alla scoperta dei Barolo Boys, peraltro affrontato in un momento in cui la bilancia della storia (e il gusto degli appassionati) pende a favore dei tradizionalisti.
Abbiamo rifuggito qualunque visione manichea della storia, qualsiasi forma di revisionismo (addirittura, direte voi! ma vi assicuro che ci è già stata rivolta questa accusa, prima ancora di iniziare le riprese) o esaltazione a priori dei nostri protagonisti, sondando ogni racconto o diceria senza risparmiare loro accuse di vario tipo e neppure alcuni colpi bassi.
Abbiamo dato voce ai tradizionalisti, abbiamo stuzzicato e provocato i modernisti, sollevato temi spinosi e delicati, vicende umane talvolta dolorose che giacevano sepolte da decenni, conflitti personali e contrasti generazionali.
La mia personale conclusione?
Non ci sono più i cattivi di una volta!
Un paio di mesi fa, mentre effettuavo alcune riprese per un documentario sulle vicende che hanno caratterizzato la storia moderna del Barolo, sono finito sul famoso “Belvedere” di La Morra. Era una domenica mattina, la temperatura era rigida (credo fosse gennaio) e il cielo di Langa sembrava un lenzuolo azzuro appena stirato, senza alcuna chiazza di nuvola.
Lo spettacolo però non era sopra le nostre teste, ma molto più in basso, tra le capezzagne delle Rocche, di Brunate e Cerequio, e ancora dritto davanti a noi, verso la collina dei Cannubi, oltre Santo Stefano di Perno e fino a Serralunga. Sotto i nostri occhi, le terre del Barolo si distendevano in tutta la loro geometrica perfezione, avvolgevano il pensiero e trasmettevano una sensazione di serenità e benessere così accentuata da apparire quasi “tattile”
A un certo punto è arrivata una comitiva di turisti di lingua inglese, americani con ogni probabilità.
Dopo l’immancabile coro di “wow!” (sì, a ripensarci erano decisamente americani), la guida, una mia vecchia conoscenza albese, ha iniziato le spiegazioni annunciando con una certa enfasi che in estate tutto quel ben di dio ai nostri piedi potrebbe diventare il 50° sito italiano Patrimonio Mondiale dell’Umanità UNESCO. Quindi, enunciati gli ettari vitati e i milioni di bottiglie annue, è passata a elencare uno per uno i paesi visibili dal Belvedere, indicandoli col dito.
Quello che nessuna guida dice mai, o quasi mai, è che la fortuna del Barolo è recente. Anzi, recentissima. I depliant dell’Ente Turismo e i pur notevoli libri fotografici che riempiono le vetrine delle enoteche di Alba non mostrano mai come si presentava lo stesso paesaggio anche solo una trentina di anni fa: gerbidi, cascine abbandonate, campi promiscui, strade interpoderali da percorrere soltanto a piedi e non con i mezzi meccanici. Nessuno avrebbe esclamato “wow!” costeggiando la conca delle Brunate e della Serra. Anzi, nessuno ci sarebbe passato: il turismo ha scoperto queste zone negli ultimi vent’anni, se prima incontravi qualche straniero probabilmente vuol dire che s’era perso.
La storia del Barolo non è datata come quella della Borgogna. In Piemonte nessun ordine cistercense ha iniziato otto secoli fa a mappare i cru e testare i sesti d’impianto sui vari vitigni; eppure non è nemmeno così giovane come le premesse potrebbero far pensare.
L’epopea di questo vino e del suo vitigno-padre, il nebbiolo, affonda le radici in pieno Risorgimento italiano e ha per protagonisti alcuni dei personaggi eccellenti del periodo, Carlo Alberto e Camillo Cavour su tutti: alla loro passione per i vigneti di Langa si devono le prime innovazioni cruciali, anche se è una donna, la Marchesa Giulietta Colbert, a usare per la prima volta il nome Barolo associato ai Nebbioli prodotti in zona.
Nel Novecento la tradizione si consolida e tra Alba e le colline fioriscono importanti aziende di vinificazione. Non sono ancora le cantine di oggi, sono piuttosto ditte che acquistano ingenti quantitativi di uva dai contadini e la vinificano, immettendo sul mercato vini col proprio marchio. Il loro numero è esiguo perché sono tempi duri, sulle colline si respira la malora e solo una minoranza è attrezzata per trasformare la materia prima.
Nascono e si affermano quasi tutti tra inizio secolo e le due guerre i nomi che fanno la “seconda rivoluzione” del Barolo, dopo il periodo dei regi entusiasmi: Borgogno, Ratti, Giacomo Conterno, Cappellano, Virginia Ferrero, Pio Cesare, Prunotto, Calissano e pochi altri.
I capostipi di queste famiglie sono grandi conoscitori di vigne, hanno un senso innato del commercio e per diversi decenni sono i veri arbitri delle sorti del territorio: intorno a loro si muove una cerchia di mediatori, sensali, acquirenti e venditori, fino ad arrivare al “particolare”, il piccolo contadino senza voce in capitolo.
Altre figure si muovono su un piano più intellettuale o di “politica del territorio”: penso a Giulio Mascarello, padre dell’indimenticato Bartolo, Battista Rinaldi, sindaco storico di Barolo e, tra i non produttori, Giacomo Morra e Luciano de Giacomi, inventore della Fiera del Tartufo il primo, promotore dell’enoteca di Grinzane Cavour il secondo.
Resta pur sempre un mondo chiuso. E il Barolo, a dirla tutta, non si vende. D’accordo, è il vino della domenica o del giorno delle nozze, ma commercialmente parlando negli anni Settanta non si va oltre le 1.000 lire al litro franco cantina e spesso nelle cascine se ne omaggia una bottiglia al cliente che abbia comprato una damigiana di Dolcetto.
Langhetti che vadano per il mondo a proporre i loro vini ce ne sono, ma anche in questo caso si contano sulle dita di una mano: Angelo Gaja e i fratelli Bruno e Marcello Ceretto sono l’eccezione, non di certo la regola.
Bisogna attendere una perfetta, irripetibile congiunzione astrale per vedere il Barolo spiccare il volo oltre i confini di Langa ed entrare nel novero dei grandi vini internazionali. Tra la fine degli anni Settanta e i primi anni del decennio successivo le informazioni cominciano a viaggiare, il mondo vive un generale periodo di boom economico e il grande pubblico si scopre disponibile a spendere di più per bere meglio. È in questo contesto socio-economico fluido (e certamente propizio) che emerge la generazione dei figli ribelli: viticoltori di 25-30 anni che intuiscono le potenzialità dell’uva nebbiolo, prendono a viaggiare in Francia e a documentarsi, si coalizzano, fanno esperimenti.
In una Langa “inorridita”, questi vigneron mandano in scena la terza e definitiva (per ora) rivoluzione del Barolo: iniziano a diradare le uve per migliorarne la qualità, introducono le piccole botti di rovere francese facendo legna da ardere delle vecchie e grandi botti di castagno, spingono le macerazioni su tempi “scandalosi” di 36-40 ore, invece dei 30, 40, 50 giorni consueti.
Tutto si compie nel giro di dieci anni: precisamente tra il 1976, anno dei primi viaggi in Borgogna, e il 1986 dello scandalo del metanolo e della nascita di Arcigola-Slow Food, con relative pubblicazioni enologiche.
Dietro questa svolta radicale ci sono i “Barolo Boys”, così chiamati dalla stampa americana che, nei primi anni Novanta, scopre i loro vini e li adotta, trasfomando i loro artefici in star riverite e corteggiate. Elio Altare, Roberto Voerzio, Enrico Scavino, Luciano Sandrone, Domenico Clerico, Giovanni Manzone, Giorgio Rivetti e Renato Cigliuti sono tra i primi “modernisti” riconosciuti. Molti altri si aggregano via via (Conterno Fantino, Parusso, Chiara Boschis, i fratelli Corino e i Revello, Mauro Molino, i due Grasso, Elio e Federico…) e vanno a ingrossare le fila di un movimento spontaneo che ha nel celebre importatore italo-americano Marco de Grazia il più importante terminale commerciale per il mercato americano.
Il nuovo Barolo è un concentrato di colore scuro, una bomba di frutto al naso e in bocca sostituisce i tannini dell’uva – che non hanno tempo di attecchire con tempi di fermentazione così esasperatamente ridotti – con quelli della barrique: il mercato impazzisce, i migliori ristoranti del mondo fanno ponti d’oro, la stampa di settore va in visibilio, e come d’uopo fioccano le polemiche.
Superato lo shock iniziale dovuto alla novità, il fronte dei “tradizionalisti” si ricompatta e tra le due visioni del Barolo, una più classicheggiante e legata a una certa idea di identità, l’altra sfacciatamente aperta a ogni possibile sperimentazione e miglioria tecnica, scoppia la più originale delle guerre ideologiche.
I più acuti di entrambi gli schieramenti sanno che anche questo è markerting e, dietro agli appelli ufficiali alla calma, non fanno nulla per stemperare i toni, che ancora una volta richiamo le attenzioni dei media. La Langa così come la conosciamo oggi, capace di togliere il fiato se ci si affaccia dal Belvedere di La Morra, si plasma in quegli anni rutilanti, anni in cui arrivano sulle colline più soldi di tutto il secolo precedente, in cui i giovani decidono di fermarsi in azienda, si rimodernano le strutture e si pianta nebbiolo ovunque sia possibile (benchè non sempre logico).
Oggi le nuove generazioni, figlie dei Barolo Boys e di chi li ha contestati, cercano una sintesi tra le due anime del territorio. Il Barolo 2.0 nasce su 1.500 ettari vitati di 11 Comuni a sud di Alba, finisce in 14 milioni di bottiglie esportate in ogni angolo del globo e sembra aver trovato la giusta misura tra i legittimi desideri d’avanguardia e un gusto più aderente alla tradizione. Ora che tutto questo sta anche per diventare un film, verrebbe da dire che il miracolo è completato. All’inizio ci credevano in pochi, poi i pochi sono diventati tanti, tra due mesi l’Unesco potrebbe farle diventare le Langhe di tutti.